«Monsters», nell’ambiguo caso di Lyle ed Erik Menéndez la verità è sempre relativa
dal Corriere della Sera
La serie Netflix, molto ben ritmata, racconta la storia dei due fratelli che nell’89 uccisero a sangue freddo i genitori, Josè e Marie Louise Menéndez
Continua la ricerca dei fatti di cronaca nera più efferati e sconvolgenti del secolo, una storia che continuerebbe bene anche in Italia, ricca di materiale «mostruoso». «Monsters» è il non equivoco titolo della serie creata da Ryan Murphy, iniziata col caso Simpson (citato ampiamente anche nel nuovo film), proseguita con lo sconvolgente «Dahmer», fra i lamenti dei parenti delle vittime, ed oggi giunta a raccontare la storia dei fratelli Lyle ed Erik Menéndez che nell’89 uccisero a sangue freddo i genitori, Josè e Marie Louise mentre sul divano, mezzi addormentati, guardavano la tv.
Già deciso anche la prossima star, Ed Gein, «macellaio» serial killer, autore di sette omicidi fra cui anche il fratello, personaggio cui si era ispirato Hitchcock per il suo capolavoro Psycho. Oggi »Monsters», fra i più visti di Netflix pur in mezzo alle polemiche dei diretti interessati, è il racconto in nove puntate della psicopatologia non solo dei due fratelli belli, ricchi e dannati, ma anche di tutta la invidiata famiglia. Tanto che poco alla volta i genitori diventano i protagonisti di questa macabra storia di cui sappiamo chi sono gli assassini e le vittime fin dalla prima puntata.
Fatto vero, ma alla fine la serie diretta da cinque registi abbastanza equivalenti tra loro (Ian Brennan, anche produttore, oltre a Max Winkler, Paris Barclay, Michael Uppendhal, Carl Franklin) diventa un Rashomon, cioè una storia che ha molti lati di verità e falsità in cui è impossibile destreggiarsi, un po’ pirandellianamente: così è se vi pare. I ragazzi, con tutta l’arroganza della ricchezza e del fascino, uccidono i genitori (padre danaroso faccendiere di origine cubana, monumento al self made man) ma si difendono dicendo che erano stati fin da piccoli molestati dal papà in modo pesante.
Il dubbio è: mentono o dicono il vero? Il film cambia la prospettiva, noi siamo portati a credere ai due imputati quando sono loro a raccontarci la storia dei mille soprusi subìti nascosti in famiglia, mentre quando ci sono al centro i genitori viene il sospetto che la loro sia solo una strategia difensiva per impossessarsi della cospicua eredità di un chiacchierato testamento. E infatti scattano le polemiche. Equamente diviso tra passato e presente, con la seconda parte tutta in tribunale e in carcere: la quinta puntata è esemplare, fatta dall’interrogatorio dell’avvocato al fratello Erik, il più debole, quello che confessa per primo tutto allo psicanalista, altro personaggio che entra poi nel racconto.
Ma, ripetiamo, la verità è sempre relativa, anche se oggi i due ex ragazzi sono in carcere (furono condannati nel 96 all’ergastolo senza possibilità di libertà vigilata) e si lamentano perché nella serie si adombra ci fosse anche un incestuoso legame fra loro. La storia è popolata della fauna di Los Angeles, un giornalista investigativo che si occupa del processo per Vanity Fair cui è stata uccisa la figlia, i parenti delle vittime, due avvocatesse sulla rampa di lancio, tate e camerieri fedeli, la giuria che deve resistere al doppio gioco della seduzione, gli amici di gioventù, altri ed eventuali.
Molto ben ritmata, con qualche perdonabile ripetizione, la serie è riuscita proprio nella sua ambiguità, nella naturalezza morbosa con cui possiamo sposare una delle tesi, sostenute tra l’altro da un gruppo di attori eccezionali: Javier Bardem è l’odioso padre che ha anche un’amante (così pare), Chloè Sevigny la madre che lascia correre, s’impasticca e soffre, e i due golden boys Nicholas Alexander Chavez (Lyle, il più forte e deciso, colui che manovra l’operazione e ha molta influenza sul fratello) e Kooper Koch (Erik), una gara di bravura e di doppio giochismo in cui i giovani offrono mille sfumature, passando dall’essere odiosi nella loro limousine a vetri oscurati a farsi invece compiangere.
Chi si aspetta una serie horror tipo «Dahmer» si sbaglia, c’è solo la scena della duplice, efferata uccisione che può far abbassare lo sguardo, per il resto è un family life movie di milionari anaffettivi con alcune puntate tutte davanti al giudice o nei meandri del carcere di Los Angeles, dove ovviamente è rischioso far la doccia. E quando si parla di abusi, e se ne parla spesso e diffusamente, non si dice solo del lato sessuale, peraltro molto particolareggiato, ma anche degli abusi psicologici e, direi, morali oltre che emozionali.
Insomma, siamo di fronte a un panorama umano che fa paura e quindi la domanda è: chi sono i veri mostri? I due ragazzi non hanno mai cambiato versione, anzi hanno arricchito l’inferno a porte chiuse di sofferti particolari. Copertura mediatica, parenti testimoni, il sensazionalismo, il lungo processo (sette anni prima del verdetto). Dentro questi personaggi, soprattutto nei ragazzi, ci sono crepe esistenziali difficilmente guaribili, uno è violento, egocentrico, disperato perché costretto a portare un parrucchino, mentre l’altro è fragile, introverso, forse gay.
Si cambia idea nel corso della visione, che non è necessariamente un difetto, anche perché il rimbalzo delle responsabilità va fino alle origini, quasi bibliche, rimette in discussione ancora una volta il rapporto tra padri e figli e la potenza del Dio Dollaro. E in ottobre dovrebbe arrivare sempre su Netflix un documentario sugli stessi fatti, il che probabilmente complicherà ancora di più proteste e minacce.
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